Credits: Fabio Berasi, Gloria Perrone, Najat Rakik                                     Credits: Fabio Berasi, Gloria Perrone, Najat Rakik                                        Credits: Fabio Berasi, Gloria Perrone, Najat Rakik                                        
Progetto realizzato in collaborazione con Dolomiti Contemporanee e CFP Bauer - 2025
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UNLEARNING THE MAP



Crescere in un angolo del mondo che si percepisce come centro culturale, artistico e
storico del globo, significa essere immersi in un sistema di rappresentazione che
raramente viene messo in discussione.
Tra questi sistemi, uno dei più subliminali ed efficaci è il modo in cui viene misurato il
mondo: mappe, planisferi, cartine e altri strumenti, apparentemente neutri, raccontano una
visione fortemente parziale e arbitraria della realtà.
Uno strumento emblematico di questa visione è la cartina di Mercatore. Dal 1569 rimane
ancora oggi la più usata e culturalmente integrata, nonostante presenti una
distorsione delle proporzioni geografiche. Questa proiezione cartografica infatti
rappresenta i territori più vicini ai poli, come l’Europa e il Nord America enormemente
ingranditi rispetto a quelli vicini all’equatore, come l’Africa, il Sud America e l’Oceania.
Questo dettaglio tecnico è già un programma ideologico.
Le mappe non sono mai frutto di punti di vista neutri: disegnare il mondo è già una
dimostrazione di potere e una metafora politica coloniale.
La cartina di Mercatore rispecchia perfettamente la visione del mondo di un’Europa
all’apice della sua espansione coloniale. Così, l’Occidente rappresenta sé stesso come
centrale, grande e dominante: il resto del mondo viene compresso e relegato ai margini,
simbolicamente ridimensionato.
Abituati sin da piccoli, accettiamo questa prospettiva come un dato di fatto, senza renderci
conto di quanto influenzi la nostra percezione degli equilibri globali.
Il privilegio occidentale è inscritto nella geografia stessa. Tutto ciò penetra profondamente
nel nostro immaginario e condiziona il modo in cui ci rapportiamo agli altri popoli e territori.
Il nostro sistema di rappresentazione amplifica il potere simbolico dell’Occidente e
minimizza quello del resto del mondo.
Manipolare fisicamente le cartine, distorcere e decontestualizzare i planisferi è stato il
nostro modo di mettere in discussione non solo la loro attendibilità come
rappresentazioni geografiche, ma anche il sistema di valori che sottendono. Siamo
partiti da una visione bidimensionale - che ha già subito delle forzature prospettiche -
modellandola a solidi tridimensionali, creando una doppia distorsione sia formale che
ideologica.
Queste forme tridimensionali entrano negli spazi inquadrati nelle nostre fotografie
ricordandoci che la geografia non è solo una rappresentazione su carta, ma anche
un’esperienza fisica che viviamo ogni giorno.
Le crepe, le linee e le superfici organiche e imperfette che caratterizzano questi spazi si
fondono alle mappe e alle cartine, assumendo una qualità cartografica nuova: si
presentano come un reticolo spontaneo, in contrapposizione alle linee immaginarie che
tracciamo per dividere e rappresentare il mondo.
Gli spazi diventano fautori di ciò che le mappe hanno solo tentato di fare: imporre un
ordine visivo su qualcosa che per sua natura è complesso e in continuo mutamento.
Le sei facce del cubo si mescolano in combinazioni sempre nuove, creando una diversa
geografia, fluida e instabile e suggerendo come la geografia sia sempre stata manovrata a
piacere dall’uomo.
Il processo critico che questo lavoro suggerisce è particolarmente rilevante in un mondo
che deve confrontarsi con le conseguenze di secoli di colonialismo e sfruttamento. I confini
tracciati sulle mappe sono spesso il risultato di imposizioni arbitrarie, decise da
potenze straniere, non curanti delle realtà locali. Le distorsioni delle cartine non
sono solo figurative: sono il sintomo di disuguaglianze geopolitiche, conflitti e squilibri
che persistono ancora oggi.